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Netrebko ed Eyvazov al festival di Lubiana

giovedì 13 luglio 2023

Vi sono appuntamenti imperdibili: fra questi vi è quello con Anna Netrebko e Yusif Eyvazov al Festival di Lubiana. Passata dopo l’era del Covid nei concerti in piazza nostante la pioggia battente a quella del Cankarjev dom, la coppia d’oro della lirica mondiale si è confermata ancora una volta all’altezza della situazione, presentando la sera dell’11 luglio un concerto memorabile con l’Orchestra Filarmonica della Radiotelevisione Slovena diretta da Michelangelo Mazza.  Affiancati dal mezzosoprano Elena Zhidkova e dal baritono Zeljko Lucic hanno infatti eseguito un impegnativo programma completamente verdiano, anche nel bis il celeberrimo brindisi di Traviata. Come già detto precedentemente questo tipo di programma risulta assente dai programmi nazionali dei teatri italiani, non si capisce bene per quale snobistico motivo. Un sano programma operistico verdiano e non può fare solo che bene agli atrofizzati spettatori medi dei teatri lirici italiani, ormai abituati solo a regie strampalate piuttosto che ad affinare le orecchie con i grandi cantanti. Ciò che ci piace sottolineare in questo difficile programma è stato come Netrebko ha potuto iniziare con la cavatina di Lady Macbeth per poi passare con la massima facilità alla leggerezza della Gilda del concertato “Bella figlia dell’amore” riservato ai soprani leggeri di agilità.  Senza voler fare paragoni poco calzanti, in passato solo una celebre cantante greca poteva osare certi salti di repertorio. Nella vocalità della Netrebko tutto è invidiabile, ma soprattutto l’emissione spettacolare e l’appoggio sul fiato . Estensione, morbidezza, mancanza di vezzi, rispetto della partitura fanno di lei non una diva ma una vera primadonna intesa nel senso della vera artista. Dopo molti anni dal debutto la cantante russa può infatti passare da “Pace, pace mio Dio” al duetto di Leonora con il Conte di luna dal Trovatore,risplendendo sia nel settore centrale come in quello acuto. Eyazov tenore che ha dovuto affrontare ripetutamente critiche sul suo colore di voce non propriamente splendido,  è apparso invece in forma smagliante . Destreggiandosi fra i più spericolati ruoli verdiani, quali Duca di Mantova o Alvaro nella Forza,,, ha dimostrato la giusta protervia nel Trovatore come pure la delicatezza nel finale di Aida. Al fianco della coppia il baritono Lucic dimostrava possanza vocale e grinta da vero baritono vilain forzando talvolta il fraseggio e ottenendo così effetti non sempre ortodossi. Il mezzosoprano Elena Zhidkova appariva il punto debole della serata in difficoltà nell’aria di Azucena. Ottima prova della direzione di Michelangelo Mazza che sapeva assecondare i cantanti senza darne l’impressione e anche eseguire con senso della danza e del ritmo le belle danze dall’Otello raramente eseguite. Brindisi finale con trionfo in una sala gremitissima.

Turandot chiude la stagione del Verdi di Trieste

martedì 16 maggio 2023

Il capolavoro incompiuto del cigno di Torre del lago gode a Trieste di una certa fortuna sia dal punto di vista vocale come pure da quello direttoriale, avendo visto in passato  il teatro triestino direttori come Daniel Oren e cantanti come Olivia Stapp, Maria Chiara , Giovanna Casolla . La produzione presentata al Verdi a firma di Davide Garattini originariamente concepita con Katia Ricciarelli nel 2019 è apparsa forse leggermente rinnovata rispetto alla prima versione. In particolare i costumi di Danilo Coppola che dividevano chiaramente i personaggi buoni in bianco dai cattivi in nero, semplificavano la comprensione dell’azione non sempre chiarissima. Anche le scene molto imponenti di Paolo Vitale non apparivano scontate ma funzionali all’azione . Le proiezioni sul fondale erano abbastanza discrete. Nell’insieme una realizzazione scenica decorosa con nessuna trovata particolare ma che non meritava le contestazioni finali. La direzione orchestrale di Jordi Bernacer privilegiava la tenuta drammatica piuttosto che la tavolozza coloristica della partitura della partitura incompiuta che è stata eseguita senza la tradizionale aggiunta del finale di Alfano.  Scelta rispettosa anche se poco popolare.  Il cast era nel suo insieme all’altezza. In particolare il Calaf di Amadi Lagha era sicuro, deciso e altisonante comme il faut anche se non privo di nuances. Kristina Kolar una buona Turandot mai affaticata ma sempre squillante. Ilona Revolskaja pur non in possesso di un bel timbro ha dato di Liù un’efficace rappresentazione in particolare nell’ultima aria. Anche le tre maschere erano adeguate. Nota non positiva sul Timur di Marco Spotti. Buona sia la prova dell’orchestra come pure del coro del Verdi. Gran successo alla fine se non fosse stato per qualche contestazione alla regia come detto sopra.

Orfeo a Venezia e a Trieste.

martedì 9 maggio 2023

Sono passati molti anni da quando adolescente cominciavo a frequentare i teatri lirici e i vecchi maestri non cessavano di ripetere che per ridurre i costi ed ampliare l’offerta i teatri avrebbero dovuto agire in coordinamento. Ci troviamo invece a recensire oggi due Orfeo ed Euridice di Cristoph Willibald Gluck  entrambi versione viennese 1762, entrambi in italiano, entrambi senza danze. Non volendo alimentare polemiche non possiamo non considerare come neppure il periodo Covid sia riuscito ad insegnare qualcosa . La produzione veneziana a firma di Pier Luigi Pizzi, da un lato non presentava sorprese ma si confermava nella tradizione di un ottimo metteur en scene più che su quello di un innovativo regista. Grande eleganza nei morbidi e sontuosi costumi ma soprattutto una sana concezione del teatro che va con la musica e non contro la musica. Apparente semplicità ma nello stesso tempo buon gusto  adattissimi a uno stile musicale , quello di Gluck volutamente antitetico alle macchine barocche e ai virtuosismi belcantistici. Perfetta era così la consonanza con l’Orchestra della Fenice diretta da Ottavio Dantone notevole esperto settecentista che ha evidenziato nella partitura la giusta drammaticità associata al senso musicale più autentico. Protagonista era Cecilia Molinari che in possesso di un bel timbro forse più mezzosopranile che contraltile delineava comunque un Orfeo sentito ed adeguato. Euridice era una May Bevan credibile scenicamente. Anche Silvia Frigato come Amore ben assolveva al suo compito . Il coro della Fenice si dimostrava discreto .Diverso il discorso per l’allestimento triestino a firma di Igor Pison che,  pur partendo da una buona idea, quella di attualizzare un dramma senza tempo quale quello di Ranieri de Calzabigi, non manteneva le promesse, non sembrando di credere fermamente nel dramma ma ridicolizzando piuttosto l’azione con una specie di parata carnevalesca, che mal si abbinava alla sobrietà della musica. Daniela Barcellona protagonista, non più in possesso di gran proiezione vocale, ma a suo agio prevalentemente nel settore acuto, riusciva a dare comunque di Orfeo una rappresentazione pregevole. La direzione di Enrico Pagano non era priva di slancio ed autentica resa. Ruth Iniesta era una buona Euridice, come pure Amore di Olga Dyadyv. Ottima la prova del coro e dell’orchestra del Verdi. Le prove dei ballerini non deludevano e facevano rimpiangere a Trieste come a Venezia l’assenza delle danze, in un opera dove la musica stessa le ispira. Grande il successo sia a Venezia come pure a Trieste.

Falstaff inaugura la Fenice

martedì 6 dicembre 2022

Falstaff non è certo la più famosa fra le opere verdiane, ma rappresenta forse il testamento spirituale del cigno di Busseto. In questi periodi tristi per non dire tragici è emblematico dunque che il teatro alla Fenice voglia inaugurare la stagione con un titolo insolito. Falstaff mancava dalla Fenice dai tempi della chiusura del teatro e fu rappresentato l’ultima volta nel famoso tendone del Tronchetto. Ciò che a nostro parere deve aver spinto il teatro a orientarsi verso la narrazione delle avventure delle allegre comari di Windsor, deve essere stata la decisione del maestro Chung di debuttare con quest’opera. Era lui infatti il vero protagonista al quale possiamo attribuire uno fra i migliori complimenti che un vecchio ascoltatore come chi scrive possa tributare: una luce nuova su quest’opera in particolare nell’uso della parola mai casuale ma sempre accurata e precisa. Dizione , colori sfumature e fraseggio mai forzati, hanno reso la comprensione del testo parte fondamentale della lettura del capolavoro verdiano. Nella visione di Chung ha convinto anche l’eleganza e la morbidezza della linea, lontana da quella secchezza nevrotica di certi direttori che privilegiano il lato moderno di questa impegnativa partitura. La regia di Adrian Noble, ambientata in un teatro elisabettiano non è fra quelle che turbano il pubblico e la critica nè positivamente nè negativamente.  Non si tratta infatti di una regia che vuol far parlare di sè. Allo stato attuale delle cose già un bel traguardo. Non è neppure vecchia e banale come si potrebbe pensare, una regia che non calca la mano sui personaggi che mai resi farseschi, ma piuttosto si concentra come è giusto sulle situazioni comiche. Il cast era capitanato da Nicola Alaimo che ci consegnava un protagonista non sopra le righe. Vladimir Stoyanov conferiva al centrale personaggio di Ford buona affidabilità nella dizione precisa. Il quartetto delle donne vedeva nella Meg di Veronica Simeoni e nella Alice di Selene Zanetti il proprio acme . Si difendevano anche Quickly di Sara Mingardo e Caterina Sala come Nannetta agile e precisa. Ma se la commedia verdiana non permette a nessuno di strafare nel protagonismo, l’ottimo livello della produzione si constatava anche nelle parti cosiddette minori che però minori non sono. Bardolfo, Pistola, Cajus e ultimo ma non ultimo il Fenton di René Barbera. Grande successo per uno spettacolo curato nei particolari non casuali.

 

Otello inaugura il Verdi di Trieste

lunedì 14 novembre 2022

Scorrendo il programma di sala dell’Otello inaugurale del Verdi di Trieste ci viene dato di pensare non a un piccolo teatro del nord est italiano ma a una grande ribalta internazionale. Merli, Pertile, Tebaldi,Kabaiwanska , Cappuccilli,Cura , Pons. Per non parlare dei direttori fra cui Molinari Pradelli, Basile  Bertini e ultimo ma non ultimo il grande Nello Santi. Come molti sanno è nell’indole degli abitanti di questa città il fare le cose senza troppo clamore. Questa inaugurazione aveva però un altro motivo di notevole richiamo: il ritorno al Verdi del grande direttore Daniel Oren, assente dalle scene triestine da diversi anni.Il ruolo principale veniva sostenuto da Arsen Soghomonyan , armeno, che si dice molto conosciuto nei teatri dell’est europeo . Voce notevole, tecnica pure, ma mancanza quasi totale di interpretazione e scavo del personaggio, che in un ruolo come questo si antepone spesso alle lacune vocali. Va da sè che lo Jago di Roman Burdenko conquistava maggiormente il pubblico nonostante sia uno fra i ruoli più antipatici concepiti da Verdi. Desdemona è Liana Haroutounian dalla voce e dalla tecnica belle anche se non personalissime e dal gusto non troppo moderno. Vero protagonista diventa quindi il direttore israeliano che, nonostante non sappia contenere la propria irruenza sul podio con interventi talvolta rumorosi , ci consegna una trascinante interpretazione del capolavoro verdiano. Oren unisce orchestra e coro in un assieme pieno di colori e sfumature oltrechè di accenti che raramente ci è stato dato sentire. Unico appunto che non smetteremo mai di fare per le partiture verdiane in particolare: perche’ non si eseguono i ballabili scritti da Verdi , quando sono fra le più belle pagine dal cigno di Busseto? Volendo raccontare della realizzazione scenica di Giulio Ciabatti , datata 2010, dobbiamo purtroppo affermare che si dimostra piuttosto carente sia sul piano scenografico come pure su quello gestuale. Regia non solo priva di idee nuove ma anche di quella convinzione nella tradizione che a volte può mascherare la mancanza di autentica ispirazione . Trionfo finale con solo qualche dissenso per la regia.

la Fille alla Fenice

lunedì 17 ottobre 2022

La Fille du Régiment è un ‘opera comica dove il tenore è destinato a brillare quasi sempre a dispetto del soprano. L’edizione in scena in questi giorni alla Fenice non fa eccezione, come quella famosa apparsa molti anni fa negli Usa quando un quotidiano intitolò Il Figlio del Reggimento, volendo sottolineare la strepitosa prestazione di Alfredo Kraus che , neanche a dirlo trionfò nell’edizione veneziana andata in scena nei lontani anni 75/76. John Osborn che non ha ancora la popolarità che gli spetterebbe se pubblico e critica fossero più acuti e distinguessero l’eccezionalità dalla routine, ci consegna un Tonio da antologia. Non solo o non tanto per la facilità di esecuzione della temibile “Pour mon ame ” bissata a furor di popolo con tanto di variazioni nel da capo e corone e acciaccature, quanto per studio del personaggio ,proprietà stilistica e della lingua francese. Nella seconda aria  Pour me rapprocher de Marie il tenore americano non solo si cimenta in filati funambolici dove esibisce anche un re bemolle a mezza voce ma riesce comunque a far passare il virtuosismo non fine a se stesso ma insito nel personaggio . Il tutto con grande semplicità e naturalezza. Non lo stesso possiamo dire della protagonista Maria Grazia Schiavo che nel ruolo di Marie è apparsa decisamente in difficoltà, in particolare nel registro acuto con suoni spesso più che sgradevoli. Solo a tratti nel registro centrale la voce presentava qualche colore più accettabile, ma come si sa Marie è da sempre appannaggio di soprani di agilità o di coloratura intrinsecamente legati alla spavalderia tipica della vivandiera del reggimento ventunesimo. Purtroppo la cattiva impressione avuta nella Lisetta della Gazzetta pesarese ha avuto qui una conferma. Buono il Sulpice di Armando Noguera e persuasiva la Marquise di Natasha Petrinsky . Marisa Laurito era una Duchesse molto sui generis e avremmo preferito solo recitato. Ottimo il coro della Fenice anche nella recitazione. La direzione di Stefano Ranzani era giustamente attenta alle esigenze delle voci, sospesa fra uno stile rossiniano e francese che Donizetti ricercava in quest’opera . La regia di Barbe e Doucet appariva sottolineare molto più l’aspetto larmoyant di quello comico volendo ambientare l’azione in una moderna casa per anziani dove si immagina che la protagonista guardi indietro al suo passato durante la seconda guerra mondiale. Una visione non particolarmente originale, ma soprattutto priva di quella necessaria comicità nelle parti recitate che risultavano così piuttosto noiose.Trionfo alla seconda recita.

Rigoletto al Verdi di Trieste

venerdì 13 maggio 2022

Passato da molto il tempo in cui il Verdi di Trieste si distingueva per l’originalità dei suoi titoli. Si rappresenta così ancora Rigoletto, il capolavoro verdiano che non ci stanchiamo mai di ascoltare. Eric Chevalier presenta una realizzazione scenica abbastanza tradizionale con costumi che sembrano proprio voler caratterizzare in tutto e per tutto quello che ogni appassionato ha in mente di quest’opera . Un grande muro semovente posto in centro scena per cercare di caratterizzare l’insieme dell’infelice storia del povero gobbo alla corte del Duca di Mantova, come nel grande dramma di Victor Hugo. Eric Chevalier da parte sua non sembrava voler dare letture psicologiche particolari neppure nella gestualità, lasciando ai singoli cantanti una certa libertà. Il regista si immagina infatti che lo spettatore si avvicini per la prima volta all’opera e vuole così restare aderente al testo come sarebbe sempre giusto. Sul podio c’era la giovane Valentina Peleggi che è un talento non indifferente e fa ben risultare il capolavoro verdiano senza esagerare nelle sonorità ma restando però nell’ambito della tradizione, senza quindi riaprire i tagli come ormai oggi appare indispensabile fare e affrontare così l’edizione critica. Detto ciò bisogna riconoscere uno slancio direttoriale che non impediva ai cantanti di esprimersi con libertà, pur essendo sempre ben sostenuti dalla bacchetta.L’orchestra ampliata al di fuori della fossa e posizionata in parte della platea risponde con sicurezza e precisione alla direttrice. Il cast era all’altezza della situazione con uno splendido Duca di Mantova interpretato da Antonio Poli, che ha timbro sprezzante e fascinoso, arroganza comme il faut e facilità comunicativa. Rigoletto di David Cecconi è raffinato e interiorizzato ma sempre su una linea elegante e corretta. Gilda di Ruth Iniesta è passionale e sentita anche se non in possesso di un timbro argenteo . Fra le parti di contorno solo il Monterone di Rocco Cavalluzzi appariva carente mentre tutte le altre parti più che soddisfacenti. Grande successo alla prima con applausi anche durante la recita.

Faust alla Fenice

martedì 10 maggio 2022

Quale mito più attuale dell’eterna giovinezza? Se i valori che hanno governato la nostra società per secoli quali onestà amore per la patria e via dicendo sono crollati da un pezzo, quello della ricerca dell’eterna giovinezza è invece imperante più che mai anche a rischio del ridicolo cui si sottopongono ormai troppi appartenenti a ogni sesso . Il capolavoro di Gounod basato naturalmente sul poema di Goethe non è però fra i titoli più rappresentati in questi ultimi anni . Sarà forse per la complessità della realizzazione scenica ma anche per la difficoltà a reperire un cast adeguato e soprattutto un direttore adatto al titolo. Dopo la felice realizzazione in periodo di pandemia, Joan Anton Rechi ha potuto presentare la sua versione scenica del dramma di Gounod senza troppe restrizioni se non ci fossero state le mascherine ancora obbligatorie per le masse corali. L’ambientazione nel mondo del cinema con qualche riferimento a titoli felliniani quali Giulietta degli Spiriti non è apparsa fra le più originali. Inoltre l’unica scena girevole presente dall’inizio alla fine non sembrava certo raccontare molto della densa trama delle avventure del vecchio medico ringiovanito con l’aiuto del diavolo. Mancava però quel senso del diabolico con trovate originali. Anche il rapporto incestuoso fra Valentin e sua sorella non convinceva più di tanto. Numerose altre citazioni che non stiamo ad elencare fra cui la rappresentazione en travesti di Mephistophélès. Imperdonabile il completo taglio del grande baccanale con le insostituibili danze che in un’opera francese come Faust fanno parte integrante della drammaturgia. La direzione di Frédéric Chaslin soddisfaceva più sul lato tragico espressivo che su quello coloristico ma dava una buona tenuta d’insieme. Ivan Ayon Rivas ha una vocalità ideale per Faust con grande facilità negli acuti squillanti. Alex Esposito è un vero istrione scenico con una presenza mefistofelica assai sicura e incisiva. Carmela Remigio appariva talvolta sfocata vocalmente ma sempre impegnata interpretativamente. Armando Noguera un Valentin più che efficace. Grande successo alla prima in una sala esaurita.

 

Capuleti alla Scala

lunedì 7 febbraio 2022

Chi scrive di musica deve avere sempre il coraggio delle proprie azioni e non avere peli sulla lingua.  Vincenzo Bellini fra i massimi compositori non solo italiani ma dell’intera storia della musica, pur avendo composto splendide melodie richiede, non solo voci adeguate ma anche direttori esperti e fini conoscitori delle ragioni del belcanto. Speranza Scappucci che sostituiva l’indisposto Evelino Pidò, doveva quindi reggere il confronto non solo con lui ma anche con Muti che nel 987 che aveva lasciato un’ indimenticabile edizione con June Anderson e Mariella Devia in alternanza nei ruoli del titolo. Da sole queste due signore hanno dato due interpretazioni antologiche che non si possono dimenticare. Abbiamo ascoltato in questo ruolo anche Luciana Serra, Giusy Devinu , Edita Gruberova e Lella Cuberli, Katia Ricciarelli, citando solo alcune fra le più grandi. Come sappiamo però la vita va avanti e con essa il teatro dell’opera . Lisette Oropesa come Giulietta ha dato da par suo una notevole interpretazione di Giulietta ma non quell’idea di personaggio virginale ed estatico quanto piuttosto unau primadonna appartenente a un romanticismo maturo più che belliniano. Sono sottigliezze da belcantista nostalgico direte voi,  ma non possiamo non ricordare queste signore che hanno dato lezioni di autentico belcanto. Speranza Scappucci da parte sua ha dato un’ottima chiave interpretativa pur scegliendo tempi piuttosto lenti non suggerendo talvolta agli interpreti certi trucchi che solo un direttore molto esperto può conoscere. Detto ciò piacevolissima sorpresa è stato il Romeo di Marianne Crebassa che al di là di certi acuti un pò fissi e sforzati ha dato di Romeo una raffigurazione assolutamente credibile sia scenicamente che vocalmente,  forse fra le migliori degli ultimi tempi.Il tenore Jinxu Xiaou ha dimostrato bel timbro e facilità nell’emissione ma non sempre tecnica sicurissima . Il Lorenzo del decano Michele Pertusi aveva il suo fascino d’antan. La regia di Adrian Noble ambientando in un mondo liberty con alcune eccezioni ad epoca più moderna si discostava da certe mode imperanti nel protagonismo registico ma non disturbava occhio e orecchie dello spettatore. Grande successo per un titolo non certo popolarissimo in una Scala stracolma.

il Barbiere al Verdi di Trieste

martedì 7 dicembre 2021

Da rossiniani doc quali siamo dobbiamo gioire ogni volta che viene portata in scena una partitura del cigno di Pesaro. Nello stesso tempo da critici obiettivi dobbiamo anche porgi l’interrogativo : perchè un nuovo allestimento? quale l’urgenza artistica dietro di esso?. Francamente in questo caso ci sfugge proprio. La regia di Massimo Luconi di questa produzione non disturbava l’occhio e non sembrava certo costosa sapendo un pò di trovarobato. Peccato che mancava l’impronta di una mano comica degna di esaltare la cartteristica principle di quest’opera lasciando ai singoli cantanti il compito di fare acnhe da mattatori. Il libretto così ricco di situazioni invoglia quasi sempre il regista a scherzare e ad eccedere talvolta . In questo caso mancava invece una vera impronta personale. Diverso il discorso sul piano musicale nell’orchestra ben diretta da Francesco Quattrocchi che sceglieva una via di mezzo fra la rigidità di certe letture troppo legate all’edizione critica e quelle al contrario troppo di tradizione. Piatto forte del cast era l’Almaviva di Antonino Siragusa ben lontano da certi tenorini di tradizione  dalla vocalità poco calzante per un grande di Spagna. Siragusa in possesso di notevole sicurezza tecnica ma anche di charme interpretativo non indifferente dà di Almaviva una immagine intensa ma insieme piena di sfumature e nuances partendo dalle due prime arie per finire nella grande scena tripartita finale dove in un fluire di agilità sciorinate con grande padronanza si realizza come un vero protagonista. Al suo fianco il baritono Mario Cassi aveva di Figaro una prorompente vitalità e un timbro imponente e gradevole. Forse qualche finezza belcantistica potrebbe impreziosire ancora la sua interpretazione. La rosina di Paola Gardina aveva un certo charme e una bella zona centrale mentre difettava nel settore acuto. Elegante e personale Fabio Previati come Don Bartolo . Il Don Basilio di Guido Loconsolo si caratterizzava per un notevole timbro scuro e persuasivo. Anche Elisa Verzierben ben ritraeva Berta nel sua breve aria come pure il Fiorello di Giuseppe Esposito. L’orchestra e il coro del Verdi si disimpegnavano con professionalità nel capolavoro rossiniano. Notevole il successo finale alla prima in una sala non gremita.