Ballo in maschera alla Fenice
domenica 10 dicembre 2017Il capolavoro verdiano “ Un ballo in maschera” è fra i titoli più perigliosi non solo registicamente ma anche nell’insieme dell’allestimento. Particolarmente coraggioso è stato dunque il Teatro La Fenice per aver affidato al giovane Gianmaria Aliverta l’inaugurazione della stagione 2018. Egli proviene infatti dai teatrini off off piuttosto che dai giri politico radical chic più conosciuti . Tralasciamo le solite incongruenze riservate agli analizzatori del libretto di Antonio Somma non sempre troppo armonioso e a volte anche ridicolizzato da certa critica. Aliverta preferisce invece credere nell’originale ambientazione americana dall’inizio alla fine non facendo altro che trasportare l’azione in epoca verdiana quindi qualche anno più tardi di quella del Somma. Sembra strano ma il tutto non è apparso affatto sgradevole anzi . L’azione collocata dopo l’abolizione della schiavitù negli stati del sud vede solo qualche piccolo episodio di oppressione razzista quasi a ricordare gli anni appena trascorsi. La cura dei costumi di Carlos Tieppo e delle scene di Massimo Checchetto hanno fatto il resto. Solo l’ultima scena, quella del Ballo a corte ambientata con la Statua della libertà, è apparsa forse come una piccola libertà registica. Vero asse portante dello spettacolo è stata la notevole direzione di Myun Whun Chung che è risultata intrisa di una veemente ed entusiasmante padanità autenticamente verdiana. Unico appunto la scelta spesso di tempi piuttosto lunghi probabilmente a contrastare eccessivo toscaninismo ormai troppo diffuso. Soprattutto Chung ha voluto scrostare la partitura di tutta quell’enfasi accumulata con la tradizione veristizeggiante. Il Riccardo di Francesco Meli è notevole come richiede la parte . Tenore d’altri tempi potremmo dire facendo l’occhiolino al grande Carlo Bergonzi . A volte un po’ meno di compiacimento nell’irrobustire i centri e nello scurire la voce apparirebbe più consono a una voce come quella del giovane ligure . Che dire di Kristin Lewis ? imbarazzante a dir poco , avremmo preferito fosse stato annunciata indisposta visto il continuo cercare di intonare una parte , quella di Amelia , che non dà possibilità di perdono. Vladimir Stoyanov ritraeva un buon Renato anche se non così protervo come sarebbe richiesto. Vero asso è stato l’Oscar di Serena Gamberoni sempre attenta sia vocalmente che scenicamente e mai fine a se stessa. Non più che decorosa la Ulrica di Silvia Beltrami. Un grande successo in un teatro gremito alla replica pomeridiana del 3 dicembre.