Re Lear di Cagnoni in Valle d’Itria

Pensando a Re Lear tutti gli appassionati di teatro non possono dimenticare lo straordinario allestimento che Giorgio Strehler fece al Piccolo Teatro di Milano negli anni settanta. Praticamente  inesistente il numero di coloro che prima dell’anno scorso conoscevano il nome di Luigi Cagnoni compositore ottocentesco di cui fu rappresentato a Martina Franca Don Bucefalo. Re Lear, tragedia lirica in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni non era infatti mai stata portata in scena anche perché incompiuta dallo stesso autore. Grazie alle cure del musicologo Anders Wiklund la partitura ha potuto essere eseguita e pubblicata da Ricordi. Sappiamo che il testo shakespeariano aveva fatto gola persino al grande Verdi il quale però dopo aver composto diversa musica, aveva preferito riutilizzarla nel Simon Boccanegra, ritenuto oggi uno dei veri e propri capolavori riscoperti del cigno di Busseto. Difficile dare da parte nostra un giudizio definitivo sulla partitura di Cagnoni dopo un solo ascolto. Non possiamo certo definire il primo impatto fra i più esaltanti. Il tessuto orchestrale ed armonico della partitura non è disprezzabile, ma manca a Cagnoni quello slancio autentico, quella vena melodica tipicamente italiana che quasi tutti i compositori avevano sia prima che dopo di lui. Quale melodia o tema rimane impresso nelle orecchie o nel cuore a fine serata? Praticamente nessuna, ben altra la fantasia ad esempio di Ponchielli che qualcuno ha voluto tirare in campo secondo noi a torto. Niente di nuovo in una partitura del 1850 un po’scontata anche se non di cattivo gusto, che non riesce comunque a tener viva l’attenzione dello spettatore seppure curioso di nuove tele musicali. L’allestimento era firmato dal giovane Francesco Esposito che però sembrava non aver messo molta originale freschezza. Un’unica scena circolare firmata dal sempreverde e famoso Nicola Rubertelli che solo in parte sembrava modificarsi in una specie di torretta ricoperta ora da specchi ora da drappi, mentre venivano evidenziati i bei costumi di Maria Carla Ricotti. Le coreografie di Domenico Iannone ci sono sembrate appena passabili. Attenta e capace invece la direzione di Massimiliano Caldi quanto più ci si sarebbe potuti aspettare, non solo nei colori e negli accenti ma pure nell’equilibrare palcoscenico e orchestra. Serena Daolio era Cordelia solo episodicamente sfocata in alcune zone ma dal fraseggio espressivo, mentre protagonista il baritono Costantino Finucci soddisfaceva appieno.  Ottima la prova del tenore Danilo Formaggia nostra vecchia conoscenza come allievo a un master del leggendario Alfredo Kraus. Calorosa l’accoglienza del pubblico per questa lodevole iniziativa musicale.