Alla Fenice Manon va al luna Park

Se il termine “evento” non fosse troppo inflazionato, sarebbe il caso di parlare della Manon Lescaut della veneziana Fenice proprio in questi termini. Non solo per la geniale regia di Graham Vick, ma anche per le reazioni del pubblico presente in sala che ha dimostrato sonora disapprovazione come raramente abbiamo constatato nella nostra lunga “militanza”teatrale. Ciò dimostra comunque che il teatro lirico non è affatto morto come vorrebbero dimostrare alcuni, ma assolutamente vivo. La semplicità della storia di Manon fa sì che anche i melomani più modesti se ne approprino ( un po’come Traviata del resto, di cui Manon può essere considerata la diretta discendente) e ritengano pertanto di avere in mano l’unica interpretazione della storia, naturalmente imprescindibile dai soliti parrucconi settecenteschi. Vick ha voluto dare una pesante mano di vernice a tutto ciò, trasportando l’azione in epoca moderna ma soprattutto inserendo già dall’inizio la prolusione a quella che sarà la fine di Manon e Des Grieux: il viaggio in America visto qui come lo sprofondare nell’abisso di una cava. Manon e des Grieux vivono fin dall’inzio in un mondo infantile, del genere vestivamo alla marinara, sempre sull’orlo di un luna park solo apparentemente tenero ma in realtà sempre soggiacente alle regole del mercato . Impressionante è poi la grande scena che apre il terzo atto, quando le signore sono sospese in aria n dai loro stessi corsetti e sono visibili le sole gambe. Ciò a significare la riduzione in stato schiavistico delle povere ragazze. Potremmo proseguire a raccontare altri particolari innovativi e spesso memorabili di questa regia dove anche i singoli coristi sono stati portati ad agire e a muoversi in maniera originale. Renato Palumbo alla testa dell’orchestra della Fenice, riusciva a ottenere unità e risolutezza anche se spesso appariva non bilanciare a dovere voci e golfo mistico, costringendo i cantanti a sforzi tutt’altro che trascurabili. Qualche cantabile meno sostenuto ma dalla linea più lirica e più italiana, avrebbe forse giovato non solo agli interpreti ma anche all’insieme dell’esecuzione. In primis Martina Serafin che oggi non ha molte rivali avrebbe forse evitato certi suoni sforzati nel settore acuto e probabilmente avrebbe fraseggiato con legato più “italiano”. Walter Fraccaro sosteneva l’impervia parte di des Grieux con sicurezza e disinvoltura e con dinamiche più articolate avrebbe reso un personaggio più completo. Uno spettacolo moderno intenso e coinvolgente come non vedevamo da tempo.