Don Pasquale al Verdi di Trieste

La semplicità dei grandi è indubbiamente riposta nel capolavoro donizettiano. Don Pasquale che può apparentemente sembrare una commediola borghese fu deturpato negli anni del verismo da volgari deformazioni macchiettisti che. Ha saputo rifiorire solo negli anni della rinascita belcantistica alleggerendosi di tutti quegli orpelli che avevano appesantito l’originale leggerezza di un canovaccio che pur essendo legato ancora a una morale autenticamente borghese non è privo di spunti ancora attuali. La regia di Stefano Vizioli al Verdi di Trieste è ripresa da uno spettacolo da noi già visionato alla Scala qualche anno fa se non erriamo. Un lavoro intimistico mai esasperato caratterizzato da piccoli gesti . A volte però soprattutto nel caso del protagonista il tutto appariva un po’ sottotono a discapito del risultato finale. Tradizionali ma funzionali le scene di Susanna Rossi Jost e i costumi di Roberta Guidi Di Bagno. Ma il grosso deficit di questa produzione stava  nella direzione orchestrale di Hirofumi Hoshida che fin dall’ouverture appariva totalmente estraneo al mondo donizettiano fatto di leggerezza di elasticità e di malinconia. Spesso in ritardo sui tempi dei cantanti si rivelava forse meno in difficoltà nei pezzi d’assieme. In tutti i casi dimostrava troppo spesso mancanza di senso del canto e dell’accompagnamento. Andrea Concetti ritraeva un Don Pasquale lineare, interiorizzato ma non troppo convincente nel suo insieme. Interessante il Malatesta di Federico Longhi, mentre l’Ernesto di Giorgio Misseri si dimostrava discreto. La Norina di Mihaela Marcu era sicura e spavalda comme il faut, pur senza un timbro troppo ammaliante. Buona prova nonostante tutto dell’orchestra e del coro del Verdi.